Grazie re Donald!

La comunicazione dell’intesa tra la Svizzera e gli Stati Uniti per una riduzione (dal 39 al 15%) dei dazi unilateralmente applicati dallo scorso agosto dagli USA a causa del furto commerciale (così si chiama ora da quelle parti la differenza negativa tra importazioni ed esportazioni) di 40 miliardi all’anno, sta determinando più di un paradosso.

Il primo è che, forse un po’ frettolosamente, in base alle regole della Realpolitik ci si è spesi (Consiglio federale compreso) a ringraziare il re che, con magnanimità, ci ha infine fatto gioire per dazi doganali al 15% (che restano unilaterali, punitivi e arbitrari) come se si trattasse di un regalo. In economia comportamentale e psicologia sociale è un meccanismo perfettamente noto e per questo anche molto utilizzato, non da ultimo dal presidente degli Stati Uniti. Smaltita la soddisfazione iniziale dell’effetto DITF (door-in-the-face) e anchoring (appunto due delle principali tecniche per far accettare con gratitudine ciò che normalmente si rifiuterebbe), nelle stanze di Palazzo federale sta ora rimbalzando come un elefante in particolare una domanda: ma a che prezzo?

Si sta infatti apprendendo che, in cambio della riduzione del dazio punitivo a partire dalla prossima primavera, la Svizzera dovrà, in particolare, promuovere investimenti di 200 miliardi di dollari (e la creazione dei relativi posti di lavoro) da parte di aziende elvetiche negli USA entro 5 anni (un terzo entro la fine del 2026), aprire il mercato agricolo svizzero ai prodotti americani, riconoscere le norme di certificazione ad esempio delle automobili (cybertruck compresi), rafforzare la cooperazione in materia di sanzioni economiche americane, rinunciare a qualsiasi tassazione sui servizi digitali (e quindi ritirare il Messaggio già licenziato dal Consiglio federale) e allineare le rispettive norme di protezione dei dati, “al fine di facilitarne il trasferimento oltre confine”.

E qui emergono altri paradossi. Da un lato, l’UDC (partito nazional conservatore, un tempo agrario) che esulta (per carità, comprensibilmente secondo le regole della Realpolitik) per una lettera d’intenti (che gli americani chiamano sintomaticamente Accordo Quadro) in cui sono previsti l’apertura del mercato agricolo svizzero al gigante statunitense e investimenti miliardari all’estero da parte di aziende elvetiche (tra cui, esplicitamente, la Stadler Rail, detenuta da un suo ex consigliere nazionale, che ha pesantemente criticato l’esito del concorso pubblico in base al quale la tedesca Siemens si è aggiudicata l’appalto per la fornitura di nuovi treni alle FFS). Dall’altro, il Partito socialista – solitamente più benevolo nei confronti dell’apertura all’estero – a richiamare all’autarchia e alla protezione del nostro mercato interno.

Già solo questo, dovrebbe richiamare la politica nazionale, ma anche il mondo economico, a una certa prudenza. 15 è ovviamente meglio di 39 e l’economia d’esportazione va senz’altro sostenuta, ma ciò non dovrà avvenire ad ogni costo, tanto più che – si osserva – un accordo non è ancora stato stipulato e ringraziare troppo il re, prima che abbia twittato sul suo profilo social di essere d’accordo, potrebbe indurlo ad alzare ulteriormente la posta.

Simone Gianini, Consigliere nazionale, laRegione, 18 novembre 2025